Coaching
Per comprendere appieno il significo e le finalità del coaching inteso nel senso più moderno del termine, è necessario fare diversi passi indietro e addentrarci nella cultura classica, scomodando chi ha, ben consapevolmente, inventato tale attività: Socrate. Il grande filosofo greco, padre della “maieutica”, fondò tutta la sua attività su un concetto di base: “so di non sapere”. Socrate era consapevole di essere un umano, ben lontano quindi dalle divinità e incline all’errore. Ecco perché, nel discutere con i suoi allievi, era solito porre dei quesiti senza fornire mai soluzioni. Non era lui latore della verità ma piuttosto un mezzo attraverso il quale il suo stesso interlocutore arrivava all’illuminazione.
Un modo rivoluzionario di concepire l’insegnamento, in cui il discente non è colui che impara dal docente ma colui il quale raggiunge la conoscenza attraverso un processo logico indotto dal maestro. Nella sua cosiddetta “docta ignorantia” Socrate dimostrò che il modo migliore di insegnare non è quello di impartire lezioni ma lasciare che gli alunni utilizzino il maestro come un mezzo per raggiungere la verità e la conoscenza. Il grande filosofo, dunque, concepiva l’indottrinamento come un vero e proprio parto della conoscenza. Anche alla fine della propria vita, poco prima di bere il celeberrimo estratto di cicuta, Socrate ammise di non aver compreso quasi nulla dell’umanità e che avrebbe voluto vivere di più per imparare tante altre cose.
Si è utilizzato il termine “mezzo” non a caso poiché traducendo la parola “coach” dall’inglese, vedremo che racchiude in essa il doppio significato di allenatore e di vettore, carrozza. Il coach, quindi, ha sia un valore sportivo, inteso come allenamento (fisico o mentale) che di mezzo, locomotiva che accompagna il discepolo da un punto A ad un punto B; da una condizione negativa e deludente ad una positiva e soddisfacente.
E qui entra in gioco il ruolo del coach o del life coach nel senso moderno del termine, il quale deve stringere un patto di mutuo soccorso con il proprio assistito, tacito e automatico, che si instaura attraverso un rapporto di fiducia. Ma andiamo con ordine.
Il coach può rivelarsi utile in svariate circostanze, molte delle quali posso essere riassunte in pochi punti:
- Risolvere un generico problema
- Migliorare le relazioni interpersonali
- Imparare a comunicare
- Aumentare la propria autostima
- Cancellare un comportamento reiterato e dannoso
- Gestire il tempo
- Trovare un equilibrio
- Apprendere dal proprio vissuto
Per fare un esempio, il mental coach di uno sportivo che si appresta a concorrere in una gara, dovrà sapere perfettamente quali sono le fonti di maggiore stress per il proprio assistito e fornire strumenti e tecniche per trasformarle in una spinta performativa.
Non sapere quali sono i tasti da battere in ogni circostanza, da quale punto a quale punto portarlo per farlo rendere al massimo potrebbe risultato deleterio, disastroso. Nelle fasi preliminari, dunque, un coach che si rispetti dovrà entrare in punta di piedi nell’universo proprio assistito, lasciarlo parlare e porre delle domande quanto più aperte possibile per lasciare che questi si apra volontariamente.
Durante le prime sedute, quindi, sarà l’assistito a scegliere il tema della conversazione e su cosa concentrarsi: il proprio vissuto, un’esperienza particolarmente traumatica, qualunque cosa che possa aver generato in lui (o in lei) sentimenti negativi. Sulla scorta di quanto tramandatoci da Socrate, in una seconda fase, il coach non dovrà mai porsi come soluzione al problema o come organo giudicante. Il punto nodale, infatti, risiede nel fatto che l’assistito dovrà comprendere appieno è proprio che la soluzione non si trova davanti ai suoi occhi ma dentro di sé e a portata di mano. A tal proposito, il coach esalterà i passi avanti fatti dal proprio assistito ma, al contempo, non dovrà mai far pesare le cadute o gli incidenti di percorso che si faranno sulla lunga via verso la soluzione. Sbagliare farà parte del processo di crescita e maturazione e il “coachee” (l’assistito) dovrà sentirsi libero di farlo senza timore di deludere qualcuno all’infuori di se stesso.
Definire però il coaching una tecnica persuasiva sarebbe un grave errore. In tale attività infatti non c’è spazio per la manipolazione, per l’induzione a fare qualcosa. Per dirla con Pavlov, non si genera un “condizionamento classico” di stimolo/risposta, anzi.
Il coach deve creare una relazione molto forte tra sé e il proprio assistito, tale da far migliorare le performance, aumentare la propria autostima o raggiungere un risultato come semplice e logica conseguenza di una scelta fatta consapevolmente. Ecco perché, come si diceva poc’anzi, sarebbe del tutto controproducente giudicare l’operato del coachee poiché ciò farebbe da ostacolo ad una scelta individuale.
Nello specifico, se il coach giudicasse negativamente un’azione, una reazione, una scelta, il suo assistito virerebbe su un diverso tracciato non per propria scelta ma solo per compiacere il proprio insegnante. Una modalità che porterebbe, in breve tempo, ad una insoddisfazione del coachee che si sentirebbe violato e impossibilitato a scegliere per se stesso. Un bravo coach, invece, lascerà spazio ampio di manovra al proprio assistito adoperandosi ad essere solo la cartina tornasole delle azioni fatte. Un coachee pienamente consapevole dell’obiettivo da raggiungere sarà il primo a giudicare le proprie azioni correggendole attraverso un atto assolutamente personale.
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